Capitolo 1

E in fine il suono dalla terra esca

Ferrara, Castello Estense, mercoledì 10 settembre 1482, ore 10,22

“Dimmi, sorella, per qual intendimento sia laudabile in un prìncipe mantenere la fede e vivere con integrità, se poi in fine si giace com’io giaccio, scosso dentro da questa mala aria che mi porta via come non voglio?
La morte mi farà uguale a quelle lingue di foco di Manfredo Pio e Tomaso Agnello, molto subito presi sotto il letto con Antonio!
E allora, non sarebbe stato preferibile perir di peste a Venetia, puer ancora, e ostaggio?
Or che da tre mesi sudo freddo in questo letto, e che tra poco mi godrò etternamente il buio, posso da ultimo dirti quel che m’aggrada, Violante, per raddrizzar la verità distorta, fino a che non si scioglieranno cuore e ginocchia.
E dunque, principiando, per non pagare il fìo di quei che pensan uno e altro fanno, ti dico che la rovina sua di Oddo fu non io ma lui, che il suo nome più mai fu dato.
Ho colpa io se s’era messo a pascolar le mogli altrui? A legarsi stretto a Domenico Novello, dal che grave rancor per tanto mi portasti e ancor le altre sore? Con sempre più balzelli e tasse da sperperar poi co’ suoi cursier belli e veloci? Lo dissi io, forse, a quelle stesse lingue di foco, d’intorcinarl’in cla maniera, sino a che alfine in purpurea camisa volò giù col capo rotto?
Eppur, vedi com’è il Fato: Petri Deburgo ha posto Oddo in opus come biondo angelico figliolo, martire scalzo, e a me Caino! E anco dico -fino a che la mala aria mi lasci ancor del fiato addosso- mi foste contro te et Agnesina e Sveva, mie sorelle e sue, a veder la sua fine immonda, dal che a fronte del suo giorno per esser Duca io ci durai trent’anni!
Che dice Antonio? Badi, ch’assolver non si può chi non si pente: s’armaron da sé soli i congiurati, anche se dopo l’amnistiai! Così non fu pei Serafini di febbraio…
E solo per il bene della mia Urbino dagli ariosi chiostri sovvenne il mio perdono appena Lavagine passata, e tanto ancor promisi…
Ti giuro ora, io, con le braccia come in croce, sul foro ne’ la gola di Bonconte, che come lui debba annegar io in etterno nell’Archiano gonfio di pena, come per Muzio Attendolo il Pescara: fu un famiglio sì, a spalancar a mezzanotte il Castellare, ma non al soldo mio!
Né attendo che il lume del ciel mi faccia accorto … Eppur io ti dico che non così biondo e angelico guardava fiero dal curser dipinto, neo cavalier aduso mio di palafreno in basso, che se nol vietasse l’alta dignità nostra e tu non fossi qui, direi semmai fiol di meretrice anche se honesta, che a Sigismondo ancor l’accosto! Lui sì che più volte mi tradì, per tacere d’altro tosto!
E voglio dir della Colonna anche, s’ancor puosso. Che, se quel ch’è apparso esser mio Padre non m’avesse voluto nasconder da la sua corte, il suo d’angel figliolo ancor vivrebbe, seppur, invero, grato gli sono di Gaifa prima, di poi dal doge e la Giocosa poi. Sinché da lì tornato, a me promise la Gentile a Massa, e vissi dunque al Mercatèl con lei, tutta vin di malvasia e zibibbo e miele e pinocchiate, sin’acché ella non morìa de grasseza a più non posso…
Clarissa senti… a veder da questo scorcio di letto la palude e quei fossi con le canne… si sappia com’io non voglia andar sepolto qui in San Giorgio, né in altro luogo se non dov’io già dispuosi, e dai peggio venti d’Adria abbia a riparo questa spoglia alle Cesane, all’ombra… che Ottaviano l’sappia!
E in fine il suono dalla terra esca.
E s’oda che l’opere mie furon tra la spada e il saio, che per quel scelerus de’ Pazzi di me medesmo mai non mi vergogno, giacché per Sisto IV ed il suo soldo dovei tenere la balanza dritta, e tutto fu per via di messer Riario, che per Melozzo tien le mani ascose non perché questa guerra del sal lui volle, ma per Giuliano…
Non rivedrò il mio Baldo Guido… il mio Bonconte… né Aura… che di lei nulla più seppi, dacché se ne partì col Montesecco…”

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