Capitolo 2

Richard Green

Heathrow, metà marzo, giorni nostri

Le luci della sala d’attesa lo avevano sempre messo a disagio. Anche quella volta non facevano eccezione, e certo lo stato d’animo del prof. Richard Green non aiutava.
Lo sorreggeva il desiderio di partire, quasi una necessità fisica. Il percorso era stato accidentato, nonostante avesse deciso dalla stazione di Paddington di prendere l’Heathrow Express invece del solito bus o taxi, proprio per evitare sorprese.
La fretta del momento gli aveva fatto dimenticare di verificare da quale terminal sarebbe partito, fidandosi di quello comunicato per telefono dall’agenzia, che aveva maltrascritto su un post-it volante. La partenza era fissata per le dieci e ventidue.
Un tre invece che un cinque gli avevano fatto perdere quasi venti minuti per raggiungere il punto di partenza giusto, ma era comunque riuscito a trovare il suo gate e ora se ne stava su una di quelle larghe e scomode poltroncine di metallo crivellate, vicino a un cestino stracolmo di cartocci abbandonati e giornali di ogni risma. Sparsa in terra, qualche patatina fritta sbriciolata e bottiglie di birra: la civiltà anglosassone si vede dai dettagli.
Il prof. Green, pur essendoci ovviamente avvezzo, non amava le sale d’aspetto né le abitudini culinarie inglesi -tranne forse i mini sandwich con salmone affumicato e granchio degli afternoon tea, peraltro dal sapore continentale- e adorava invece quelle italiane: altro elemento di distacco, se non di dissidio, dal suo mondo era la concezione dell’arte culinaria…
Decise di rifuggire il fastidio del continuo aprirsi e chiudersi delle porte dei vicini gabinetti, e dei loro conseguenti effluvii a intermittenza, e ingannare l’attesa con il ripasso a memoria delle opere del più famoso drammaturgo d’Inghilterra che più lo avevano appassionato: d’abitudine, il prof. Green interpretava le cose, gli eventi, i pensieri quotidiani attraverso i testi del passato che amava, che mandava a memoria e che ripeteva sottovoce, per concentrarsi o estraniarsi.
Che miele ci si può aspettare? Se la gerarchia è mascherata i più indegni fan bella figura anch’essi nella mascherata generale. I cieli stessi, i pianeti, e questa terra che è centro di ogni cosa, rispettano grado, priorità, rango, stabilità, corso, proporzione, tempo, forma, dovere e fedeltà col massimo rigore.
L’affluenza dei viaggiatori stava aumentando, intorno a lui le sedute erano ormai tutte occupate, segno che l’orario di decollo era imminente.
Per questo l’astro glorioso del sole troneggia col suo globo in nobile eminenza nel cerchio celestiale e il suo occhio benefico corregge l’influsso dei pianeti maligni, come il proclama di un re arriva senza fallo a buoni e a cattivi. Ma se i pianeti si mischiassero a caso in maligno disordine, quali pestilenze, mostruose rivolte, tempeste marine e terremoti, turbini di vento, terrori, mutazioni, orrori spaccherebbero, frantumando e sradicando l’unità e il sereno connubio dei ceti dal loro saldo posto!
Una corpulenta signora si arrabattava inutilmente nel tentativo di sedare due bambini indaffarati a rincorrersi tra borse, valigie, zaini e sporte, che andavano accumulandosi un po’ ovunque.
Quando la gerarchia, che è la scala ad ogni grande impresa, è scossa, l’azione volge al male. La comunità e i ranghi nelle scuole, le corporazioni, il pacifico commercio tra terra e terra, la primogenitura e il diritto di nascita, le prerogative dell’età, della corona, degli scettri, degli allori, come potrebbero -senza gerarchia- conservare il timbro del legittimo? Si spezzi la gerarchia, si porti a dissonare quella corda, e sentirete quale discordia seguirà!
Proprio vero come tutto cambi affinché nulla cambi -pensò- come tutto si ripeta secondo canoni immutabili e universali… Non ho mai capito se Shakespeare si fosse ben integrato col potere per necessità, pur detestandolo in cuor suo, oppure se effettivamente fosse un conservatore.
Ogni cosa confliggerà con l’altra dissolvendosi: l’acque, Contenute, gonfieranno i lor petti sovra gli argini fino a fare un’informe pappamolla di tutto questo consistente globo; la forza bruta diverrà padrona del debole; ed il figlio disumano colpirà a morte il più debole padre; solo la forza diverrà il diritto, o, piuttosto, il diritto ed anche il torto, ed in mezzo all’eterno lor contrasto siederà la Giustizia, e non si saprà più chi è l’uno o l’altro, e la Giustizia perderà il suo nome.
L’apertura del gate numero undici diede una scossa alla folla e la fila andò rapidamente formandosi, ordinandosi, allungandosi. Il prof. Green si concentrò, per estraniarsi maggiormente.
Tutto si assomma allora nel potere assoluto, ed il potere s’assomma alla sua volta nel volere, e questo in insaziabile ingordigia; e l’ingordigia, lupo universale, forte di questo duplice sostegno -del potere e volere- fatalmente farà dell’universo la sua preda, fino così a divorar se stessa. Ecco, grande Agamennone, il disordine che, una volta strozzato che sia l’ordine, farà seguito al suo soffocamento. Ed è per colpa dell’inosservanza dell’ordine sociale stabilito che, un passo dopo l’altro, va a ritroso tutto ciò che dovrebbe andare avanti: e allora il comandante è dileggiato da chi d’un solo grado gli sta sotto, e questi da chi sta sotto di lui; e così, sull’esempio di quel primo, ogni inferiore spregia il superiore e cresce in tutti un’invidiosa febbre di livida ed esangue gelosia.
Decollato britannicamente in orario, l’aereo si assestò in velocità, altezza e direzione. Green ripiegò indietro lo schienale e socchiuse gli occhi. Le ginocchia toccavano il sedile davanti. Considerò che la British Airways tiene in grande considerazione la clientela infantile e quella orientale. Dopo avere allentato i lacci delle scarpe raddrizzò le gambe e le distese alla meglio sotto lo spazio angusto. Si rilassò, con la mente occupata dai soliti pensieri. L’attività universitaria del prof. Green in quel momento era tesa ad approfondire l’opinione che si andava da tempo diffondendo su Shakespeare per verificare le teorie alle quali si era avvicinato, che erano in contrasto con la posizione più ortodossa: per una così variegata massa di opere sfornate in un tempo relativamente breve, le fonti d’ispirazione del Bardo dovevano essere molteplici e dalle radici profonde. I suoi studi lo portavano in Italia. La tensione in facoltà era palpabile, col mondo accademico poco incline a condividere i suoi studi e qualche collega che apertamente lo indicava come un vero e proprio traditore della Patria: a quanto pare, non c’era termine più adeguato per uno che si stava spostando verso studi tendenti a screditare colui che da oltre cinque secoli era il fiore all’occhiello dell’impero e della cultura anglosassoni nel mondo.
Il Bardo aveva ragione, ammise Green: non solo sul fatto che l’ingordigia, lupo universale, farà dell’universo la sua preda fino a divorar se stessa, ma anche che, se la gerarchia è mascherata, i più indegni fan bella figura anch’essi nella mascherata generale. Ogni inferiore spregia il superiore e cresce in tutti un’invidiosa febbre di livida ed esangue gelosia. Richard non aveva alcuna stima né della classe dirigente né dell’enclave universitario. Ben sapeva su quale squallido ma efficace meccanismo si reggeva il sistema di autoconservazione della classe intellettuale, una vera e propria consorteria, attraverso la quale da secoli sono garantite la continuità dei posti e le rendite di posizione: quando sarò in commissione di concorso appoggerò il tuo protetto, tu farai altrettanto col mio. Dovevi solo metterti in fila, questione di tempo. A nulla erano serviti i tentativi del parlamento di arginare il fenomeno: la casta subito creava gli anticorpi; una parvenza il meccanismo delle commissioni a sorteggio, dato che tutti erano coinvolti; un palliativo l’introduzione di criteri oggettivi di valutazione dei titoli, visto che il problema si era solo spostato alla fase successiva con la prova orale, la cui valutazione da parte dei commissari era, per sua natura, discrezionale; una emerita sciocchezza privilegiare il numero delle opere, che certo non erano sinonimo di qualità, anzi spesso ne andava a discapito. Ma quella volta, in quella tornata concorsuale, c’era stato un outsider, lui. Nel senso che nessuno si aspettava vincesse, aiutato come fu da una serie di circostanze fortunate: il designato era il figlio del prof. Kenneth Mat Flare, che aveva ottenuto la promessa da tre commissari su cinque. Era accaduto però che un componente della commissione esaminatrice decidesse, tanto inopinatamente quanto sconsideratamente, di morire di infarto in una camera d’albergo a Parigi mentre attendeva il suo turno quale relatore in un convegno dedicato proprio al Bardo, mentre si occupava -pare in termini non prettamente accademici, ma con impegno- di una giovane che non somigliava alla di lui consorte. Un altro commissario votò inaspettatamente contro Mat il Giovane, per vendicarsi di Fastin il Vecchio, il quale anni indietro aveva criticato una sua opera. Così Richard Green si ritrovò in cattedra, anche se più per sventura del pupillo designato che per meriti propri.
In facoltà avevano iniziato subito a fargliela pagare, rendendolo così, dopo anni di lotta quotidiana contro le ombre e le gerarchie, l’outsider nell’altro senso del termine, l’estraneo. Anche perché lui si era impegnato intransigentemente a metterci del suo, avvicinandosi sempre più a teorie pericolose, senza lasciare spazio per farsi aiutare, pur non avendo un santo protettore in paradiso. Richard però era un convinto assertore della libera ricerca: avrebbe respinto qualunque attacco personale e accettato la posizione dei suoi detrattori se avessero dimostrato di avere ragione nel merito delle sue osservazioni, peraltro non sorte da un giorno all’altro, bensì frutto di studi e ricerche di insigni colleghi che l’avevano preceduto. Il buon esito del concorso lo aveva fatto finalmente rilassare dopo anni di incertezze sul futuro, ma gli aveva lasciato un retrogusto amaro per come era stato ottenuto, nella raggiunta consapevolezza che il trucco è ovunque, che tutto è falso, che la realtà apparente ne cela sempre un’altra diversa, che la vita e il mondo sono piene di finzioni, di ipocrisie, di falsità, di ingiustizie e illusioni, come la fatina del dentino o la castagna in tasca che ti evita il raffreddore. Sotto tale profilo, gli studi sul Bardo avevano avuto grande ruolo sulla nuova consapevolezza acquisita: i tempi di allora non erano diversi da quelli di adesso né dai precedenti…
Si assopì nel brusìo generale di quella fusoliera affollata e, come spesso gli accadeva, si ritrovò in una terra di mezzo tra veglia e sonno, dove i pensieri e i ricordi si mescolano ai sogni sino a confondersi: spesso si era chiesto se ciò fosse accaduto solo a lui e a Mercuzio, o se tutti prima o poi si vestono a mo’ di un Aureliano Buendìa. Una volta lo aveva chiesto a suo Padre e lo rivide come fosse trascorso un dì, mentre faceva quel suo gesto vago, aprendo le mani per aria ad accompagnare il suo responso che lui bambino non comprese. Ma col tempo aveva imparato che in quella via mediana, in quella condizione di riposo attivo e di silenzio ottimale per la concentrazione, emergono i pensieri migliori e occorre precipitarsi a fissarli su foglio prima che svaporino: i sogni svaniscono all’alba.
Si assopì, dunque, e sognò pensando esser sveglio di cadere trepido all’infinito in uno spazio incessante che prima dilata e poi si serra; e rivisse, sognando come fosse il presente, quell’attimo in cui la maestra gli strappava rabbiosa il suo bel disegno di fontane con sirene che spruzzavano acqua dai seni. Ma lui l’aveva vista una statua fatta così, c’era davvero, un Poseidone scusso gigante e quattro nereidi che si reggevano le poppe in una piazza sorta dai segni del cardo e del decumano!
Capì nel sogno che lo faceva apposta Helen Galbright ad accavallare le gambe, nella penombra odorosa della cantina lasciare che Ricky le alzasse la gonna. Spesso sognava quel gesto rivisto all’infinito come nella sala degli specchi: lui cercava di toccarla e lei, senza volto, gli largiva schiaffetti sulle mani, sul viso arrossito.
Si svegliò, e ora stava che gli pareva sempre d’essere di mercoledì in ottobre quando morì suo Padre, patendo lacrime trattenute e collera sopita e dissipando l’energia necessaria per campare.

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