Guido da Montefeltro era ghibellino e per tale ragione nel maggio 1281 fu scomunicato da papa Martino IV. La scomunica è una grave punizione per un cattolico ancora adesso, ma nel medio evo aveva l’effetto di escludere dai sacramenti e quindi dalla comunità dei fedeli: il termine infatti viene dal latino excomunicare, cioè “escludere dalla comunità”.
Guido non si piegò e nel 1282 resistette vittoriosamente all’assedio di Forlì, roccaforte dei ghibellini, posto dall’esercito dei francesi inviato dal papa. La battaglia è ricordata da Dante: la terra che fe’ già la lunga prova / e di Franceschi sanguinoso mucchio (Inferno, XXVII, 43-44).
Venne però sconfitto l’anno successivo e Guido fu allontanato da Forlì e così, messo alle strette, decise di far atto di sottomissione e inviato al confino. Rimase inattivo ad Asti fino al 1289, anno in cui Pisa lo chiamò per problemi interni ed esterni. Nel 1294 Guido chiese ed ottenne da papa Celestino V la revoca della scomunica.
Nel 1295, riuscì a pacificare fiorentini e pisani e ad avvicinarsi al papato, retto da Bonifacio VIII, dal quale ottenne la signoria di Forlì.
Si convertì e il 17 novembre 1296 divenne francescano e si ritirò in convento ad Assisi fino alla morte.
Veniamo a Dante. Dicunt che Guido da Montefeltro diede un consiglio a papa Bonifacio VIII sull’assedio di Palestrina contro i ghibellini Colonna: promettere il perdono ai nemici per farsi aprire le porte e poi radere al suolo la città, come infatti avvenne.
Finisce così all’Inferno, tra i consiglieri fraudolenti lo colloca nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio (Divina Commedia, canto XXVII): Dante si inventa che l’anima di Guido fosse contesa da San Francesco, ma un diavolo ebbe la meglio sostenendo la sua colpevolezza con argomenti teologici accolti da Minosse.
Dopo che Virgilio congeda Ulisse parlando italiano, Guido lo sente e lo apostrofa chiedendo qual è la situazione politica in Romagna; Virgilio invita Dante a rispondergli e gli vien detto che ogni città ha un suo tiranno ma che nessuna è in guerra.
Poi Dante chiede a Guido di svelare la sua identità e questi, credendo di parlare a un altro dannato, racconta che in vita era stato un abile soldato e un astuto politico, poi pentitosi e fattosi francescano:
Già era dritta in sù la fiamma e queta
per non dir più, e già da noi sen gia
con la licenza del dolce poeta,
quand’un’altra, che dietro a lei venia,
ne fece volger li occhi a la sua cima
per un confuso suon che fuor n’uscia.
Come ’l bue cicilian che mugghiò prima
col pianto di colui, e ciò fu dritto,
che l’avea temperato con sua lima,
mugghiava con la voce de l’afflitto,
sì che, con tutto che fosse di rame,
pur el pareva dal dolor trafitto;
così, per non aver via né forame
dal principio nel foco, in suo linguaggio
si convertian le parole grame.
Ma poscia ch’ebber colto lor viaggio
su per la punta, dandole quel guizzo
che dato avea la lingua in lor passaggio,
udimmo dire: «O tu a cu’ io drizzo
la voce e che parlavi mo lombardo,
dicendo “Istra ten va, più non t’adizzo”,
perch’io sia giunto forse alquanto tardo,
non t’incresca restare a parlar meco;
vedi che non incresce a me, e ardo!
Se tu pur mo in questo mondo cieco
caduto se’ di quella dolce terra
latina ond’io mia colpa tutta reco,
dimmi se Romagnuoli han pace o guerra;
ch’io fui d’i monti là intra Orbino
e ’l giogo di che Tever si diserra».
Io era in giuso ancora attento e chino,
quando il mio duca mi tentò di costa,
dicendo: «Parla tu; questi è latino».
E io, ch’avea già pronta la risposta,
sanza indugio a parlare incominciai:
«O anima che se’ là giù nascosta,
Romagna tua non è, e non fu mai,
sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni;
ma ’n palese nessuna or vi lasciai.
Ravenna sta come stata è molt’anni:
l’aguglia da Polenta la si cova,
sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni.
La terra che fé già la lunga prova
e di Franceschi sanguinoso mucchio,
sotto le branche verdi si ritrova.
E ’l mastin vecchio e ’l nuovo da Verrucchio,
che fecer di Montagna il mal governo,
là dove soglion fan d’i denti succhio.
Le città di Lamone e di Santerno
conduce il lioncel dal nido bianco,
che muta parte da la state al verno.
E quella cu’ il Savio bagna il fianco,
così com’ella sie’ tra ’l piano e ’l monte
tra tirannia si vive e stato franco.
Ora chi se’, ti priego che ne conte;
non esser duro più ch’altri sia stato,
se ’l nome tuo nel mondo tegna fronte».
Poscia che ’l foco alquanto ebbe rugghiato
al modo suo, l’aguta punta mosse
di qua, di là, e poi diè cotal fiato:
«S’i’ credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
questa fiamma staria sanza più scosse;
ma però che già mai di questo fondo
non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero,
sanza tema d’infamia ti rispondo.
Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero,
credendomi, sì cinto, fare ammenda;
e certo il creder mio venìa intero,
se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!,
che mi rimise ne le prime colpe;
e come e quare, voglio che m’intenda.
Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe
che la madre mi diè, l’opere mie
non furon leonine, ma di volpe.
Li accorgimenti e le coperte vie
io seppi tutte, e sì menai lor arte,
ch’al fine de la terra il suono uscie.
Quando mi vidi giunto in quella parte
di mia etade ove ciascun dovrebbe
calar le vele e raccoglier le sarte,
ciò che pria mi piacea, allor m’increbbe,
e pentuto e confesso mi rendei;
ahi miser lasso! e giovato sarebbe.
Lo principe d’i novi Farisei,
avendo guerra presso a Laterano,
e non con Saracin né con Giudei,
ché ciascun suo nimico era cristiano,
e nessun era stato a vincer Acri
né mercatante in terra di Soldano;
né sommo officio né ordini sacri
guardò in sé, né in me quel capestro
che solea fare i suoi cinti più macri.
Ma come Costantin chiese Silvestro
d’entro Siratti a guerir de la lebbre;
così mi chiese questi per maestro
a guerir de la sua superba febbre:
domandommi consiglio, e io tacetti
perché le sue parole parver ebbre.
E’ poi ridisse: “Tuo cuor non sospetti;
finor t’assolvo, e tu m’insegna fare
sì come Penestrino in terra getti.
Lo ciel poss’io serrare e diserrare,
come tu sai; però son due le chiavi
che ’l mio antecessor non ebbe care”.
Allor mi pinser li argomenti gravi
là ’ve ’l tacer mi fu avviso ’l peggio,
e dissi: “Padre, da che tu mi lavi
di quel peccato ov’io mo cader deggio,
lunga promessa con l’attender corto
ti farà triunfar ne l’alto seggio”.
Francesco venne poi com’io fu’ morto,
per me; ma un d’i neri cherubini
li disse: “Non portar: non mi far torto.
Venir se ne dee giù tra ’ miei meschini
perché diede ’l consiglio frodolente,
dal quale in qua stato li sono a’ crini;
ch’assolver non si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente”.
Oh me dolente! come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: “Forse
tu non pensavi ch’io loico fossi!”.
A Minòs mi portò; e quelli attorse
otto volte la coda al dosso duro;
e poi che per gran rabbia la si morse,
disse: “Questi è d’i rei del foco furo”;
per ch’io là dove vedi son perduto,
e sì vestito, andando, mi rancuro».
Quand’elli ebbe ’l suo dir così compiuto,
la fiamma dolorando si partio,
torcendo e dibattendo ’l corno aguto.
Noi passamm’oltre, e io e ’l duca mio,
su per lo scoglio infino in su l’altr’arco
che cuopre ’l fosso in che si paga il fio
a quei che scommettendo acquistan carco.
(l’VIII cerchio è detto Malebolge, in cui sono puniti consiglieri fraudolenti. Guido da Montefeltro racconta come è caduto nel peccato e accusa Bonifacio VIII: la fiamma di Ulisse è ormai dritta e quieta, poiché il dannato ha smesso di parlare e si allontana con il permesso di Virgilio, quando un’altra fiamma viene dietro di essa e fa voltare i due poeti emettendo un suono confuso. Come il bue che il tiranno Falaride fece costruire a Perillo muggì per la prima volta martirizzando il suo costruttutore, com’era giusto, e muggiva poi con la voce di chi vi veniva ucciso così da sembrare vivo anziché di rame, così la fiamma emette il suono della voce che all’inizio non trova spazio per uscire. Alla fine la voce esce e la fiamma inizia a guizzare, per cui il dannato si rivolge a Virgilio come colui che ha parlato in italiano ad Ulisse e lo prega di trattenersi un poco a parlare con lui che ne ha un forte desiderio. Il dannato Guido vuole sapere se la Romagna è in pace o in guerra, dal momento che lui è originario della terra posta tra Urbino e il monte da cui sgorga il Tevere).
Se Dante condanna la condotta peccaminosa di Guido, altrettanto si può dire per Bonifacio VIII, il pontefice la cui dannazione tra i simoniaci è già stata predetta: egli è presentato qui come gran prete (l’epiteto è beffardo e ironico), come il principe d’i novi Farisei, intento a far guerra ai cristiani anziché agli infedeli e indifferente al suo supremo ufficio o all’abito di Guido; è talmente ansioso di sconfiggere i Colonna suoi nemici da promettere al francescano ciò che non può dargli, ovvero l’assoluzione per qualcosa che non ha ancora fatto, colpendo con amara ironia il suo antecessor Celestino V che non ebbe care le due chiavi del potere papale, quella dell’assoluzione e della condanna. Non a caso è paragonato all’imperatore Costantino che chiamò a sé papa Silvestro I per guarire dalla lebbra, in quanto nel Medioevo si riteneva che Costantino avesse fatto proprio a Silvestro la famosa donazione che gettò le basi del potere temporale dei papi, che fu radice della corruzione della Chiesa di cui Bonifacio è per Dante insigne rappresentante (anche in XIX, 115-117, Dante nella sua invettiva contro la Curia corrotta deplorava la dote consegnata da Costantino al primo ricco patre, proprio nel Canto dei papi simoniaci in cui era profetizzata la dannazione di Bonifacio VIII).
Note e passi controversi
I vv. 7-12 fanno riferimento alla diceria per cui Falaride, tiranno di Agrigento, avesse fatto costruire all’artigiano Perillo un bue di rame dentro al quale venivano posti i condannati a morte: sotto il bue veniva posta la fiamma e il malcapitato all’interno urlava di dolore, producendo una specie di mugolio all’esterno che sembrava il muggito dell’animale. Falaride avrebbe sperimentato l’invenzione sullo stesso Perillo (la fonte dantesca è prob. Ovidio, Tristia, III, 11, o forse Orosio, Adv. pag., I, 20).
Guido dice a Virgilio che parlava lombardo, ovvero in volgare italiano: Dante pensava che gli antichi Romani non parlassero latino, ma un volgare in parte simile a quello dei suoi tempi (cfr. DVE, I, 1; è sembrato strano che Virgilio si rivolga a un personaggio greco come Ulisse in un volgare nostrano, che contrasta col linguaggio alto e solenne del Canto precedente, mentra altri ipotizzano che il poeta latino ad Ulisse avesse addirittura parlato in greco). La parola istra vuol dire «adesso» ed è voce lucchese e dell’Italia del nord; adizzo significa «aizzo», «stimolo».
Dolce terra latina (vv. 26-27) indica l’Italia; il giogo da cui nasce il Tevere è il Monte Coronaro.
I vv. 43-45 indicano che Forlì, la città che sostenne il lungo assedio (1281-83) da parte delle truppe guelfe inviate da Martino IV e che fece strage delle truppe francesi giunte in aiuto agli assedianti, è ora sotto il dominio degli Ordelaffi (il cui simbolo araldico era il leone verde rampante in campo dorato). Il fatto d’armi citato vide come protagonista proprio Guido, che dimostrò nell’occasione straordinarie doti militari e strategiche.
Il mastin vecchio e ‘l nuovo (v. 46) sono Malatesta il Vecchio e Malatestino, padre e figlio signori di Rimini (il secondo era fratello di Paolo e Gianciotto, marito di Francesca); il v. 48 allude al fatto che essi dilaniavano i nemici usando i denti come succhiello (succhio).
Il leone azzurro in campo bianco (v. 50) è il simbolo di Maghinardo Pagani, signore di Faenza e Imola che ebbe condotta ambigua con Guelfi e Ghibellini.
Cordigliero (v. 67) è sinonimo di «francescano», dal cordone di cui erano cinti questi frati.
L’espressione del v. 78 è di ascendenza biblica (Salmi, XVIII, 4) ma ricalca anche le parole di papa Martino IV nel bandire la crociata contro i Ghibellini di Forlì capeggiati da Guido.
Il v. 81 riecheggia le parole di Dante stesso su Guido nel Convivio (IV, 28, 8).
I vv. 89-90 indicano che i cristiani contro cui Bonifacio faceva guerra, ovvero i Colonna, non avevano assediato S. Giovanni d’Acri insieme ai musulmani nel 1291, né avevano mercanteggiato in Terrasanta con gli islamici.
Il v. 93, riferito al cordone francescano che un tempo rendeva più magri gli appartenenti all’ordine, è maligna ironia sul fatto che i francescani nel Trecento erano spesso preda della corruzione.
Il consiglio fraudolento dato da Guido al papa (vv. 110-111) ricalca le parole di Riccobaldo da Ferrara nella sua cronaca: «promettete molto, mantenete poco delle promesse fatte». Bonficacio promise infatti il perdono papale ai suoi nemici, per indurli a recarsi a Rieti e lasciare sguarnita la rocca di Palestrina, che poi fece radere al suolo.
La fiamma in cui sono avvolti questi dannati è definita da Minosse foco furo (v. 127), ovvero «ladro» in quanto sottrae le loro anime alla vista e non permette loro di vedere nulla all’esterno.
Quei che scommettendo acquistan carco (v. 136) sono i seminatori di discordie, che dividendo gli altri si gravano di peccato.
Tommaso Di Carpegna Falconieri fa rilevare come nonostante la dura condanna di Dante, che forse colloca Guido all’inferno soprattutto per rimproverargli il riallineamento con l’odiato papa Bonifacio, il personaggio continuò a essere lodato proprio per le sue doti di magnanimità, spirito cavalleresco e perizia militare, in un intreccio inscindibile tra la vita vissuta e la costruzione letteraria che di fatto lo rese immortale. Ventura (morto nel 1325 circa) lo disse «sapientissimus virorum, fortis et largus et callidissimus in bellando»; Giovanni Villani lo definì «gran savio e maestro di guerra e duce nelle battaglie»; Benvenuto da Imola lo considerò superiore ai re Latino, Turno e Messenzio cantati da Virgilio; la costruzione mitopoietica della casata di Montefeltro si delineò soprattutto intorno a questo personaggio, al di lui figlio Buonconte e al duca Federico. Presente come personalità eroica in tutte le storie dei duchi d’Urbino (in cui si trova a volte nominato come «Guido il Vecchio»), fu uomo di guerra e di fede: personaggio estremo che, in una visione tipicamente romantica e patriottica, divenne rappresentativo dell’intero Medioevo, venendo definito da Filippo Ugolini «il primo guerriero italiano del suo secolo»: un’interpretazione, questa, ancora presente nell’opera di Gino Franceschini, che nel 1970 lo accostava «ai grandi paladini di Francia, al paladino Orlando e al re Artù».